Galileo nella storia della scienza e della lingua italiana
1. Saluto iniziale
Il programma di questa «giornata» fiorentina prevede che il mio discorso su Galileo sia rivolto ai finalisti della Quarta olimpiade della lingua italiana: un pubblico che Galileo avrebbe gradito. Piaceva a Galileo dialogare con giovani intelligenti («intendenti», li chiamava lui), dotati «di buon naturale», «d'ingegno vivace e curiosi di sapere molte cose»; insomma, «capaci di ragione» anche se non più capaci di «parlare in baos», cioè in quel latino che era ancora vivo, fra Cinque e Seicento, come lingua europea della scienza. Per raggiungere questo pubblico Galileo scelse l'italiano e lo usò -scriveva Italo Calvino -«non come strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica.».
2. Dal Flusso e reflusso del mare ai Due massimi sistemi del mondo
Per parlare della lingua di Galileo scelgo l' opera più a lungo elaborata, quella a cui Galileo affidava la sua fama di scienziato e di scrittore: il Dialogo del flusso e reflusso del mare.
Ricordo che il manoscritto dell'opera subì modifiche imposte dalla censura vaticana, prima di autorizzarne la stampa. Due di queste modifiche sono particolarmente vistose:
a) la sostituzione del titolo scelto da Galileo con il titolo (ancora oggi in uso), imposto dai revisori romani: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano;
b) la conseguente modifica dell'incipit originario, che certamente doveva motivare la presenza del «flusso e reflusso del mare» nel titolo e rinviare alla trattazione (in Quarta giornata) del fenomeno delle maree, che Galileo riteneva prova certa della mobilità della Terra.
Galileo parla di questo, in una lettera del 16 agosto 1631 al suo «amatissimo e vero amico» Elia Diodati:
«…non ho potuto nel titolo del libro ottenere di nominare il flusso e reflusso del mare, ancorché questo sia l'argomento principale che tratto nell'opera […]. Ne è sin ora stampata la terza parte, e spero che in tre mesi si finirà il rimanente. Credo che, se si fusse intitolato il libro del flusso e reflusso, sarebbe stato con più utile dello stampatore. Ma doppo qualche tempo si spargerà la voce, per relazione di quei primi che l'averanno letto...» (XIV, 289)
Questa speranza di Galileo non si realizzò. Dopo la sua condanna e dopo la sua morte amici e scolari non sparsero la voce ma adottarono un prudente silenzio.
La condanna ebbe conseguenze notevoli. Nell'ambiente scientifico ci fu una conversione degli interessi dal settore matematico-astronomico a settori meno compromettenti che continuarono l'uso dell'italiano: scienze naturali, medico-chirurgiche, anche scienze matematiche ma applicate a problemi "terrestri" (regolazione delle acque, bonifiche, fortificazioni, progettazione di macchine e di strumenti, ecc.).
Ci furono conseguenze anche in ambito linguistico. Alcuni scienziati tornarono a usare il latino; ma Galileo fu molto letto e imitato, fra Sei e Settecento, diventando "modello" di lingua e di stile. Voltaire sosterrà addirittura che -se Galileo non fosse stato processato e condannato -l'italiano (e non il francese) avrebbe potuto subentrare al latino, di cui era il più diretto erede, come lingua internazionale della scienza.
3. Varietà di lingua e di stile
Il fenomeno linguistico più vistoso, nella scrittura galileiana, è la notevole capacità di modulazione sintattica della nostra lingua, in rapporto alla pluralità dei suoi usi.
Galileo si offriva come modello di lingua e di stile non solo a scienziati e appassionati di scienza;
ma anche a letterati e a esperti di musica. Già nel periodo pisano commentava i poemi del Tasso e
dell'Ariosto, trovando insopportabile il primo e ammirando il secondo per «la viva elasticità», per
«l'equilibrio armonico del ritmo», per «la coerenza dell'immagine». Né va sottovalutata la cultura
musicale di Galileo: figlio e fratello di musicisti molto noti, era lui stesso ottimo esecutore di
musica al liuto e esperto di teoria musicale: una competenza che spesso affiora nelle configurazioni
sintattiche e ritmiche della sua prosa.
Si spiega dunque la varietà dei giudizi letterari sulla sua lingua: «chiarezza», «precisione»,
«limpidezza», «eleganza», «luminosa evidenza», ecc. E Leopardi parlava di «scolpitezza evidente»;
De Sanctis di «forma pietrificata».
Ricordiamo inoltre che le lingue sono tre, nel Dialogo; che ognuna di esse alterna vari registri
in rapporto alle situazioni comunicative; che tutte e tre evolvono nel tempo del dialogo:
- c'è la lingua "magistrale" di Salviati: capace di maestose architetture sintattiche, all'inizio; ma anche di accelerazioni, di ritmi iterativi, di vibrazioni emotive, di sorvegliati cedimenti alla passione conoscitiva;
- c'è la lingua stridula e sintatticamente approssimativa di Simplicio, che lentamente migliora con il passare del tempo e con la crescente mansuetudine del personaggio;
- c'è la lingua elegante, disinvolta, spesso ironica, talvolta appassionata di Sagredo, venata di preziosi dialettismi veneti, ravvivata da paragoni comici irresistibili: a Sagredo sembra che chi «fa muover tutto l'universo, per ritener ferma la Terra» sia «più irragionevole di quello che, sendo salito in cima della vostra Cupola [quella del Brunelleschi in Santa Maria del Fiore], non per altro che per dare una vista alla città ed al suo contado, domandasse che se gli facesse girare intorno tutto il paese, acciò non avesse egli ad aver la fatica di volger la testa...» (VII, 141)
Per documentare la coesistenza di tipologie sintattiche diverse nella lingua di un personaggio, sceglierò Salviati che - salva la dignità magistrale - è ovviamente il più abile nell'alternare moduli e registri.
Il primo brano, dall'inizio della Prima giornata, è la risposta di Salviati a un Simplicio che crede alla «perfezione del numero 3», sulla scorta di Aristotele e dei «Pittagorici». E Salviati gli risponde con la calma, la signorilità e la complessità sintattica del maestro:
«Io, per dire il vero, in tutti questi discorsi non mi son sentito strignere a concedere altro se non che quello che ha principio, mezo e fine, possa e deva dirsi perfetto: ma che poi […] il numero 3 sia numero perfetto, ed abbia ad aver facultà di conferir perfezione a chi
l'averà, non sento io cosa che mi muova a concederlo; e non intendo e non credo che, v.g., per le gambe il numero 3 sia più perfetto che 'l 4 o il 2; né so che 'l numero 4 sia
d'imperfezione a gli elementi, e che più perfetto fusse ch'e' fusser tre. Meglio dunque era
lasciar queste vaghezze a i retori e provar il suo intento con dimostrazione necessaria, ché
così convien fare nelle scienze dimostrative.» (VII, 35)
Questo brano contiene - a partire da «ma che poi…» - una costruzione sintattica a chiasmo: due periodi – qui evidenziati in corsivo - giustapposti in modo da accostare al centro le due frasi principali (o reggenti) e da dislocare ai lati, (all'inizio e alla fine del brano) le frasi dipendenti.
Costruzioni altrettanto complesse sono presenti nella sintassi di Salviati, soprattutto nella fase
iniziale del Dialogo.
Nel brano seguente, invece, tratto dalla Quarta giornata, la sintassi di Salvati si fa rapida, incalzante, ricca di verbi. Segmentata da virgole, due punti, punti e virgola, procede in crescendo fino a placarsi in una clausola interrogativa che è anche splendida, inaspettata metafora:
«Siamo qui in Venezia, dove ora sono l'acque basse, ed il mar quieto e l'aria tranquilla: comincia l'acqua ad alzarsi ed in termine di 5 o 6 ore ricresce dieci palmi e
più: tale alzamento non è fatto dalla prima acqua che si sia rarefatta, ma è fatto per
acqua nuovamente venutaci, acqua della medesima sorte che era la prima, della
medesima salsedine, della medesima densità, del medesimo peso: i navilii, Sig.
Simplicio, vi galleggiano come nella prima, senza demergersi un capello di più; un
barile di questa seconda non pesa un sol grammo più né meno che altrettanta quantità
dell'altra; ritiene la medesima freddezza, non punto alterata: è insomma acqua
nuovamente e visibilmente entrata per i tagli e bocche del Lio. Trovatemi ora voi
come e donde ell'è qua venuta. Son forse qui intorno voragini o meati nel fondo del
mare, per le quali la Terra attragga e rinfonda l'acqua, respirando quasi immensa e
smisurata balena?» (VII, 448)
4. Prevalenza del nome sul verbo
Abbiamo appena dato un esempio di accelerazione sintattica e di vigoria verbale della scrittura galileiana. E molti altri ne potremmo aggiungere, tratti soprattutto dalla Quarta giornata, che è per Galileo quella intellettualmente più impegnativa e psicologicamente più coinvolgente.
Ciò non toglie che il fenomeno più caratteristico della sintassi galileiana sia la prevalenza del ruolo del nome sul ruolo del verbo. Prima di elencare i vari modi in cui questo fenomeno si realizza, va sottolineata la sua motivazione: la forte economia che esso consente.
La morfologia nominale è semplice: due forme per significare il numero ( festa/feste; grave/gravi; vivente/viventi); quattro forme per significare numero e genere (gatto/gatti//gatta/gatte; bello/belli//bella/belle; amato/amati//amata/amate).
La morfologia verbale è invece molto complessa: coniugazioni, modi, tempi, aspetti, persone, numeri, forma (o diàtesi) attiva, passiva, riflessiva… Insomma: uno strumento ricchissimo, ma proprio per questo molto impegnativo.
In Galileo il fenomeno della prevalenza del nome sul verbo si attua in modi che non ci sorprendono perché sono ancora oggi in uso:
- la pura e semplice soppressione del verbo in contesti in cui la congiunzione si applica direttamente a un nome, a un aggettivo o a un participio (subordinata nominale); nell'esempio che segue manca il verbo siano, fra benché e piene:
«…le parti di mezo, benché piene di valli e monti [...] rimarrebbero senz'ombre...» (VII, 106)
- l'uso dell'avverbio ecco (a volte seguito da un participio) con valore presentativo, indicativo, ecc.:
«Eccovi il pozzo [...]; eccovi i vapori grossi [...]; ed eccovi finalmente fortificata la vista …» (VII, 135)
- l'uso frequente di participi che -pur facendo parte del paradigma verbale -hanno la semplice morfologia del nome:
«Voi stimate […] la Terra, per la sua asprezza, non potente a far simile reflessione.» (VII, 95)
- i participi inoltre offrono opportunità di sviluppo terminologico con la loro possibilità di evolvere in senso aggettivale o nominale: la linea tangente diventa la tangente; la linea secante diventa la secante; l' aria ambiente, o il campo ambiente, diventano l'ambiente:
«... non avete voi per voi stesso saputo che la Luna si mostra più luminosa assai la notte che il giorno, rispetto all'oscurità del campo ambiente? ed in conseguenza non venite voi a sapere che ogni corpo lucido si mostra più chiaro quanto l'ambiente è più oscuro? » (VII, 115)
- il participio passato è ancora più utile del participio presente perché segnala anche il genere, oltre al numero, realizzando l'accordo con il nome a cui si riferisce: compresa, nell'esempio che segue, si riferisce a «una delle celesti sfere» ( non all'«orbe lunare»):
«... ma non è l'orbe lunare una delle celesti sfere, e, secondo il consenso loro, compresa nel mezo di tutte l'altre?» (VII, 282)
- il participio passato, associato al verbo essere, serve nella costruzione passiva, molto frequente in Galileo:
«... problema, che sin qui non credo che sia stato saputo da filosofo né da matematico alcuno... » (VII, 189)
La costruzione passiva merita una riflessione: essa serve alla lingua scientifica, perché appiattisce la dimensione cronologica dell'evento nella definizione del fenomeno e valorizza l'oggetto della ricerca in rapporto al soggetto che la conduce. Il prezzo da pagare è, ovviamente, una perdita di articolazione e di dinamismo verbali. Galileo paga volentieri questo prezzo nelle parti espositive e dimostrative del Dialogo. Non lo paga quando l'azione scenica esige una pronuncia fluida e incisiva. Nella dedica del Dialogo a Ferdinando II de' Medici, Galileo esalta con tre perfetti attivi le «personalità» di Tolomeo e di Copernico: «Tolomeo e 'l Copernico furon quelli che sì altamente lessero, s'affisarono e filosofarono nella mondana costituzione» (VII, 4). Anche Salviati recupera spesso la prima persona e la forma attiva per valorizzare suoi interventi: «Io dimostrerò il mio paradosso» (VII, 452); non dice: Il paradosso sarà da me dimostrato.
Possiamo concludere che, in episodi come questi, il «bel lago» della prosa galileiana diventa corrente fluviale. Ed è proprio l'esistenza di questi luoghi densi di verbalità attiva a farci capire che lo stile nominale non è «forma necessaria» del pensiero galileiano, ma strumento di «varietà» stilistica e scelta funzionale a fini espositivi e dimostrativi.
- Le osservazioni fatte sui participi valgono anche per gli aggettivi verbali di cui Galileo fa ampio uso:
«Gradiscano quelle due grand'anime, al cuor mio sempre venerabili, questo publico monumento del mio non mai morto amore ...» (VII, 31)
- molto usato da Galileo è l'infinito sostantivato preceduto dall'articolo:
«... il rimettersi ad asserir la fermezza della Terra ...» (VII, 30)
- rientrano nel guardaroba della «nominalità» galileiana due moduli nuovi rispetto al passato, che Marcello Durante ha visto «affiorare» in Galileo (Dal latino all'italiano moderno, Bologna, Zanichelli, 1981, p. 189):
- un nome seguito da due aggettivi (uniti per asindeto), il secondo dei quali specifica il significato del primo:
«E così le navigazioni verso occidente verranno ad esser comode e spedite non solamente mercé dell'aura perpetua orientale...» (VII, 468)
- un nome (accompagnato o meno da aggettivi) più un nome d'agente:
«... cerchio estremo terminator dell' emisferio apparente.» (VII, 366)
5. Lo «stile nominale»
Facciamo un salto di tre secoli per leggere due descrizioni novecentesche di Venezia in «stile nominale». La prima è di Vincenzo Cardarelli; la seconda di Paolo Barbaro:
«Alto, impressionante silenzio della notte lagunare. Scenografia romantica e cupa di Venezia notturna. Mistero delle calli, sinistro aspetto dei campielli [...] nomi strani dei ponti: ponte della morte, ponte dell'assassin.»
(Vincenzo Cardarelli)
«Umido di novembre in laguna, nebbia, acqua alta sulle rive. Ristoranti sbarrati, grandi alberghi in ferie; rari passi, nessun altro rumore, a qualunque ora di sera: le sette, le otto, le nove.»
(Paolo Barbaro)
Questa rapida incursione nel Novecento mostra la fase avanzata di un fenomeno -lo « stile nominale» -che, in Galileo, ha manifestazioni molto meno vistose e motivazioni diverse. Se però usciamo dall'ambito letterario e pensiamo a linguaggi più quotidiani (per esempio al linguaggio giornalistico) la distanza diminuisce. Noi oggi diciamo traffico aereo internazionale, scuola media superiore, ecc. senza più percepire la funzione economica di queste forme perché siamo ormai assuefatti ad esse. Ma, così dicendo, non siamo lontani da Galileo quando scriveva che le navigazioni verso occidente sono facili «grazie all'aura perpetua orientale»: soluzione certamente più economica di quella realizzabile con una frase causale (perché l'aria spira costantemente da oriente).
Possiamo concludere affermando che il «guardaroba» sintattico di Galileo appare molto ricco e vario. Il fascino della prosa galileiana è il frutto di scelte attentamente calibrate: c'è insomma un'«officina» linguistica che Galileo frequenta non meno di quella meccanica, anche se poi il risultato non rivela fatica, e l'effetto può essere quello della «naturalezza» tanto apprezzata dai lettori del Novecento.
È il lavoro di connessione sintattica, associato a quello di attenta selezione lessicale, che fa della prosa di Galileo un modello di compostezza, di eleganza e di vigore che ha sicuramente influito sulla storia della nostra lingua.
L'interesse che Galileo ha per la lingua traspare dunque dall' attenzione con cui lui stesso la usa e dalla cura con cui l'adegua alle diverse personalità degli interlocutori. Ma non manca il riconoscimento esplicito della genialità del sistema linguistico e dell'importanza delle sue funzioni:
«Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s' immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare con quelli che son nell'Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane, e la chiusa de' nostri ragionamenti di questo giorno…» (VII, 130-31)
Vale a dire che Galileo aveva intuito (con tre secoli di anticipo su Ferdinand De Saussure e sulla linguistica strutturale) l'esistenza del grafema (nella lingua scritta) o del fonema (nella lingua orale); aveva quindi scoperto lo straordinario meccanismo combinatorio di quella manciata di elementi minimi (i «venti caratteruzzi», capaci di «vari accozzamenti»), che assicurano all'uomo capacità illimitata di formulare il suo pensiero e di trasmetterlo ad altri.